Lambisci pure, o luce d’oro, i miei mattini d’ombra. Campisci il cielo del tuo inchiostro chiaro… Quando sparuta alla riviera ti sporgi, s’incorona il mare
E tu, di Minerva ministra, che per trecce infuocate coroni il tuo capo, hai un cuore tra i seni e lo servi al destino?
Svanì rapido col suo mistero. Era il baleno, l’istante del bocciolo dischiuso, aperto e già concluso nel suo profumo aitante.
Colsi, chino, la bellezza, tutta chiusa in una sfera, dispersa nella bufera aprilina d’una brezza.
Fu un istante dal tuo poggiolo. Fu un raggio, emerso da un cumulo di nuvole eburnee. Tu, elevata, a leggere sedevi, a me donata dal Caos benevolo d’un destino.
Scuote il vento i sonagli dei rami… Culla i nidi gorgoglianti di vita. La rondinella ch’impara a volare, tra le ali porta, trepido, il cuor…
Mi trattenga la vita a un richiamo di fronde stormenti e languidi gorgogli in scogli emersi, brillii di salsedine e profumi amari trasportati in un brivido,
T’ho amata sul Tevere, torbide acque corsiere, sapendoti perduta. Chissà in quali riviere, nota sconosciuta,
Domani, mia guerra e martirio, linfa del giglio e dell’acanto, sarai rugiada nel mattino, goccia tenera, in sè racchiusa, più resiliente e gracile struttura
Ti sia questa sete proibita se già credi che non berrai più, mio giovane amico innamorato in questa festa che è la mia tortu… Non giova al puledro il seno cavo
Dannati quei poeti che non dissero con pia voce di follia, ai calmi delittuosi timpani di fulgenti divise decorate, a mani avide brandenti saluti
Che ho da chiederti, o vita? Quale dono o cambiamento? Sull’albizia il fiore attendo e null’altro. Allora perché questa preghiera
Osserva la terra lacerata, trafitta dai papaveri vermiglio e dall’erba rigogliosa, dalla formica operosa e da tutta la minuzia viva.
O mosca nera, nel calice caduta, morta ebbra del mio vino, tomba più dolce non puoi bramare.
Ombra notturna, lugubre forma, luce che sei, sospesa, accogli gli occhi miei, dai sogni ormai perduti tormentati, in questa veglia buia!